Capita sempre più spesso di vedere su Instagram, il più grande museo virtuale di fotografia sociale, immagini taggate come #nofilter, quasi a voler testimoniare l’assoluta corrispondenza del soggetto riprodotto con il suo corrispettivo reale. Ma è davvero così?
Nel passaggio dal rullino al digitale, al di là dell’istantaneità e della varietà di strumenti a disposizione per “catturare” il mondo, si è subito capito che il ritocchino o come direbbero gli addetti ai lavori, la post-produzione, poteva essere finalmente alla portata di tutti. A dire il vero anche ai tempi della camera oscura era possibile osare con l’esposizione multipla, l’overpainting e la sovrapposizione di più negativi, ma volete mettere l’assortita cartucciera di filtri oggi in canna a qualsiasi smartphone? E solo per restare sul fronte della mobilità, perché volendo scomodare Photoshop si aprirebbero scenari ancora più articolati e, per altri versi, raccapriccianti. Ovvio, il “fare po’ di grafica” non se lo fa più mancare nessuno.
In sintesi, gli interventi sull’immagine fotografica non li hanno inventati i bit e men che meno i software di fotoritocco. In qualche modo sono sempre esistiti e c’è una lunga storia di manipolazioni propagandistiche che tocca tutte le dittature: dalla cancellazione degli avversari all’apparizione del gerarca di turno dentro contesti più convenienti. Anche così e per successive reinterpretazioni che si sono poi fissate nella memoria molte icone del XX secolo.
Tuttavia, sembrerebbe davvero una semplificazione piuttosto banale se ci fermassimo allo spartiacque del vero e del falso attraverso l’unica discriminante della trasformazione post-scatto.
Appiccicare l’etichetta (o l’hashtag) di verità a una foto solo perché non è stata “corretta”, significa di fatto affermare il suo esatto contrario. La trasfigurazione della realtà, già di per sé rappresentazione mediata dai sensi e dalle nostre esperienze, avviene nell’istante esatto in cui decidiamo cosa inquadrare e, di converso, quali “informazioni” invece lasciare fuori.
È “l’inganno del vero”, come diceva il fotografo Sandro Becchetti, cioè la “fotografia come menzogna” che, comunque, continua pur sempre a essere una componente essenziale della verità.
Una realtà mentita più volte, con o senza filtri, a iniziare dal suo fissaggio sulla tavolozza dei pixel o, come succedeva in passato, sullo strato di alogenuro d’argento.
Quello che ci appare “naturale” nella sua versione riprodotta è solo il risultato di uno dei tanti espedienti che utilizziamo per raccontare la realtà che vorremmo o, secondo altre dinamiche, la sua dimensione artistica.
A questo punto è difficile non dare ragione a Lewis Hine quando affermava che “solo i bugiardi sanno fotografare”.