In attesa che Ello sbaragli la concorrenza (ma al momento l’eco è quello della particella di sodio della famosa acqua minerale), il social network più in vista è sempre lui, quello della effe bianca in campo azzurro. Quando si è i primi della classe è inevitabile che, per un verso o per l’altro, si diventi anche il paradigma di ogni classificazione, indagine, dibattito. Allo stesso modo, pensate a un motore di ricerca? Nel 99% dei casi (per stare bassi) molto probabilmente ve ne sarà venuto in mente uno, Google.
Quando ancora la carta era l’unico supporto dell’informazione, dalle nostre parti succedeva che alle edicole bastava chiedere il “giornale” (non il Giornale) e automaticamente veniva dato il Resto del Carlino che, al di là delle personali inclinazioni politiche, era diventato in qualche modo l’organo ufficiale della Romagna.
Torniamo a bomba. Su Facebook ci sono un miliardo e trecento milioni di persone, un numero iperbolico che porta immediatamente a una prima costatazione: chi ha un pc prima o poi infila il naso nella piazza di Mark Zuckerberg. Tempo fa mi è capitato addirittura di sentire chiedere espressamente al commesso di un megastore di elettronica “un computer per andare su Facebook”. Insomma, volenti o nolenti, su Facebook ci sono (e siamo) tutti. Anche chi aborra il mezzo e per “principio” non vuole cedere alle sirene di Menlo Park è molto probabile che in un commento o in una foto sia stato tirato dentro, ovviamente a sua insaputa.
Arrivo al tema centrale di queste sgangherate divagazioni. Abbiamo capito che uno strumento così attraente e popolato deve essere per forza anche molto mainstream, per non dire estremamente easy e alla portata di tutti nell’utilizzo. Ma allora, se è così facile “giocare” su Facebook perché ci sono pagine che hanno a malapena un pugno di likes e altre che veleggiano sulle onde di decine di migliaia di apprezzamenti? Al netto di tutti i metodi più o meno truffaldini per accaparrarsi le simpatie digitali altrui (acquisto dei “mi piace”, scambi dei medesimi, script vari, etc.), è chiaro che la differenza che intercorre fra 30 e 10.000 likes è un numero che ha anche un nome, e questo nome si chiama lavoro. Sì perché i risultati non vengono per caso o da soli, occorrono tempo, impegno, studio. Diversamente, basterebbe frequentare un corso su come si realizza un sito e-commerce e il giorno dopo diventeremmo tutti come Amazon. Non è così che funziona, nemmeno sui social media che fanno del “clicca e vai” la loro forza attrattiva.
Facciamoci una domanda. Qual è il meccanismo che ci fa preferire quel preciso bar dove andiamo a fare colazione tutte le mattine? L’avvenenza della barista? La cortesia del barista? La qualità del caffè e delle brioches? La possibilità di sedersi al tavolo senza inutili attese? L’assortimento di giornali quotidiani? Il wi-fi libero e gratuito? Sono sicuro che ciascuno ha le proprie buone ragioni, ma in fondo resta un fatto: c’è sempre un motivo (grande o piccolo, concreto o effimero, collettivo o personale) quando si sceglie di fare un’azione in particolare o di preferire una cosa anziché un’altra.
Se queste sono le dinamiche, una pagina di Facebook (ma lo stesso si potrebbe dire per i blog e per i siti aziendali) non è poi così diversa da un bar. Entrambi i luoghi devono offrire dei vantaggi a chi eventualmente potrebbe frequentarli. Sempre per rimanere nel perimetro della metafora, andreste a fare colazione in un bar dove i proprietari non salutano e non sorridono, il caffè è al limite della potabilità, le paste sono vecchie e stantie e i quotidiani sono quelli della settimana prima? No di certo, ma allora perché pretendiamo che le persone, e parlo degli stessi esseri umani che fanno colazione tutte le mattine, vengano a frotte a visitare la nostra pagina che ancora a ferragosto ha in bella mostra una gif animata con Babbo Natale e le renne?