Abbrivio, incipit, apertura… insomma, chiamatelo come volete, ma l’inizio del discorso è indiscutibilmente la parte più complicata da affrontare in qualsiasi situazione. Che si tratti di un colloquio di lavoro, di un appuntamento importante o, addirittura, di una conferenza, la “rottura” del proverbiale ghiaccio ci tormenta per tutta la fase di preparazione.
Un buon inizio è un po’ come rispondere brillantemente alla prima domanda di un esame. Non che questo garantisca un inequivocabile successo, ma la strada per arrivare al traguardo, se non proprio in discesa, da quel momento si fa piuttosto agevole.
Ognuno, in base alla propria personalissima indole, sa come regolare il tono e lo stile in maniera tale da apparire il più autentico possibile. Invece, diventa perentorio evitare come la peste tutta una serie di “frasi fatte” che sembrano, è il caso di dirlo, fatte apposta per inibire qualsiasi emozione degli interlocutori.
1. Sono molto contento di essere qui
Come dire: potevo andare ai Caraibi, ma ho scelto di venire in questo posto. Si millanta una sorta di gentilezza (ho preferito voi) che non aggiunge nulla sotto il profilo emotivo. Anzi, è solo un riempi-tempo fine a se stesso, oltre che vagamente stucchevole.
2. Grazie per avermi invitato
Di solito, segue a ruota la frase precedente con l’aggravante della falsa modestia. Infatti, una volta lanciato l’inciso, è difficile non lasciarsi prendere la mano dai “È davvero un onore…”, “Non potevo dire di no…”, “Spero di essere all’altezza delle vostre aspettative…”. Insomma, tutte sperticate che puzzano di finto lontane un miglio.
3. Parliamo di me
Per presentarsi, che non vuol dire elogiarsi, non c’è bisogno di alcuna sottolineatura. L’esaminatore o il pubblico sanno chi sei, quindi è sufficiente dire il nome, il cognome e cosa fai, senza divagare ed esibire bravure peraltro tutte da confermare. La cosa importante non è parlare di te, ma far capire perché tu sei lì.
4. Vi chiedo gentilmente di spegnere i vostri cellulari
Quante volte l’abbiamo sentita? È un vero e proprio evergreen che nel pubblico ottiene come effetto una risposta mentale che va da “ma fatti gli affari tuoi” al più risoluto “vaffa”. Che dire, proprio un bel modo per farsi amica la platea, no?
A parte che alcuni dei partecipanti potrebbero avere delle buonissime ragioni di reperibilità, e non mi riferisco solo ai medici e alle forze dell’ordine, è buona norma lasciare il campo (anche quello elettromagnetico) alla discrezionalità individuale. Piuttosto, invece di vietare questo o quello, preoccupiamoci di sintonizzarci sull’attenzione del pubblico.
5. Chi è di Milano?
Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano anche “Chi si è diplomato al liceo?”, “Chi ha fatto il militare?”, “Chi lavora in banca?”. Questi sondaggi demografici per alzata di mano hanno ormai fatto il loro tempo.
L’interazione con il pubblico è fondamentale per il buon esito del nostro intervento, ma non deve essere banale. Nel contesto appropriato, piuttosto che chiedere chi soffre di attacchi di panico è molto meglio arrivare diretti con “Quante compresse di Xanax ingurgitate ogni giorno?”.
6. Chiedo scusa per…
Esiste un vasto campionario di scuse che spazia dalla pessima qualità delle slide (non è una novità!) alla salute cagionevole.
Se abbiamo avuto il coraggio (è il caso di dirlo) di proiettare un PowerPoint raccapricciante o, per altro verso, siamo riusciti a trascinarci sul palco nonostante i nostri 40 di febbre, si tratta di cose che al pubblico non interessano. Quest’ultimo è lì per ascoltare cosa abbiamo da dirgli e basta.
Quindi le scuse stanno a zero, di qualsiasi tipo esse siano. Siamo in ballo? E allora balliamo! Concentriamoci unicamente sui contenuti che vogliamo trasmettere alla platea e facciamolo al meglio delle nostre possibilità.