Da tempo ho una convinzione, direi addirittura un’impronta della comunicazione che si è in qualche modo fossilizzata nel mio cervello: la formazione è un processo bidirezionale.
Non può esistere nessun modo di insegnare che non sia al tempo stesso un’occasione di apprendimento per il coach o il tutor o l’insegnante.
Certo, lavorare in miniera non è minimamente paragonabile, ma anche l’insegnamento è un’attività parecchio dura, specie per le responsabilità che comporta. Più aumenta l’autorità dell’insegnante e più cresce l’effetto delle cose che egli stesso trasmette ai suoi discenti.
Le nozioni c’entrano fino a un certo punto, quello che conta più di ogni altra cosa è capire la differenza fra “trasferire dei concetti” e “assicurarsi che l’interesse rimanga alto”. Ciò succede solo quando, fatti salvi i rispettivi ruoli, fra il coach e l’aula si instaurano obiettivi condivisi. Entrambe le parti hanno delle cose da insegnare e da imparare vicendevolmente.
1. La formazione è connessione
Connettersi con gli altri significa condividere un po’ di noi stessi. Quando insegniamo facciamo parte di quella stessa equazione che rende umana ogni nostra attività, ovvero il “sentire” l’emotività di chi ci circonda, le passioni e, talvolta, le paure racchiuse dentro uno sguardo, l’intenzionalità dell’esserci o del non-esserci.
La connessione richiede coraggio da tutte e due le parti, ma è soprattutto compito del coach “offrire” il proprio cuore al dialogo.
2. Lo stile di comunicazione
Probabilmente, non ce ne rendiamo conto, ma il modo con cui esponiamo una lezione è molto diverso da come ci relazioniamo con i nostri familiari. Per carità, ciò è un bene. Infatti, tarare la nostra comunicazione in relazione a contesti diversi è il risultato di una prospettiva funzionale del tutto plausibile.
Tuttavia, mai perdere di vista il fatto che il messaggio è rivolto pur sempre a delle persone e queste colgono più il “come” rispetto al “cosa” si dice.
3. L’ascolto attivo
Detta come va detta, un insegnante che non ascolta non è un insegnante. Il successo di un coach si misura dalla sua capacità di ascoltare, anzi formazione e interazione fanno parte dello stesso “gioco”.
Un gioco dove la somma non può che essere diversa da zero. Non c’è chi parla e chi ascolta (quando va bene), ma si instaura una situazione in cui tutti imparano grazie al doppio canale dell’ascolto.
4. L’autenticità
Possiamo aver somministrato lo stesso corso per anni, ma guai a inserire il pilota automatico. Ogni volta è come se fosse la prima volta, solo così riusciamo a far capire che ci importa essere lì e che siamo curiosi come dei bambini nell’attimo prima di scartare i regali di Natale.
5. Le domande difficili
Manco a dirlo, sono quelle che dobbiamo rivolgere prima di tutto a noi stessi. “Sono un esempio per le cose che sto raccontando?”, ecco un buon punto di partenza.
Con le parole è relativamente facile convincere, ma è l’esempio che trascina e lascia un segno indelebile. La formazione che funziona è quella che rende indistinguibili lo studio e la sperimentazione. Non c’è niente di più noioso delle teorie prive di qualsivoglia contenuto di carattere personale. Sì, la formazione è soprattutto “sporcarsi le mani”.
6. Allenare i sentimenti
Quando arriviamo a separare i nostri sentimenti (le sconfitte, gli errori, le delusioni) dalla funzione che stiamo svolgendo, abbiamo perso prima ancora di iniziare.
Raccontare che la felicità esiste ha senso solo se dimostriamo come la conquistiamo ogni volta che le cose per noi si mettono male. Non siamo superuomini, abbiamo semplicemente dato un senso all’alzarsi dal letto tutte le mattine.
7. Cogliere i segnali non verbali
In un corso di 8 ore filate è naturale che l’attenzione non si mantenga costantemente al massimo livello. Per questo, è fondamentale cogliere il prima possibile tutti quei piccoli segni che denotano un distacco (distrazioni, sguardo assente, modo di stare seduti).
Ecco arrivato il momento di fare una pausa! A volte, per recuperare la situazione, è sufficiente “mettersi nei loro panni” e far capire che stanno facendo una cosa comprensibilissima e per certi versi ovvia.
8. Come facciamo a capire se siamo sulla strada giusta?
D’accordo, ci sono le schede di valutazione dei docenti, ma le nostre qualità stanno tutte dentro quelle scale numeriche?
Oltre all’aspetto quantitativo dobbiamo preoccuparci. Sì, preoccuparci del successo che avranno i nostri corsisti. Ovviamente, nel tempo li perderemo di vista e raramente sapremo come “sarà andata a finire”.
Tuttavia, se avremo fatto di tutto per far brillare i loro occhi possiamo essere certi che un giorno o l’altro tireranno fuori dalla loro “cassetta degli attrezzi” il senso profondo di quel nostro sorriso carico di passione.
Complimenti ! Sempre pensato (ed anche condiviso) ma mai espresso x iscritto o comunque mai così bene ! MC
Grazie mille Mario!