Saremmo degli illusi se pensassimo di poter scrivere esattamente ogni nostra idea. Il processo di cambio di stato dal pensiero alla parola scritta si attua sempre attraverso una perdita di informazioni più o meno consistente.
Mai e poi mai riusciremmo ad annotare esattamente tutto quello che ci è capitato anche solo un’ora fa. Il problema riguarda essenzialmente la diversa natura degli elementi in gioco. Da una parte il pensiero, continuo e analogico, dall’altra le parole, discontinue e digitali.
Tuttavia, ricordiamo una poesia anziché un’altra, preferiamo un racconto fra mille, ci piace un articolo in particolare invece dei suoi omologhi che trattano la stessa faccenda. Perché?
Grammatica del pensiero
Di certo non è solo una questione di correttezza grammaticale (comunque importante). Entra in gioco prepotentemente un “miscuglio magico” fatto di parole giuste al momento giusto, di “voci” che riflettono il soffio dell’anima, di leggerezza espositiva che ci fa sentire “dentro” il pensiero dello scrittore. In una parola, lo stile.
Lo stile è quella cosa che, a differenza della grammatica, se ne frega delle regole. Le parole scritte con stile elidono il confine fra significato, significante e referente. Cessano di essere un segno esattamente codificato per aprirsi un varco in quel “non detto” che mette in comunicazione un cuore con un altro cuore.
Paradossalmente, la componente verbale della scrittura fluttua nel non-verbale. Così le parole diventano la fotografia delle emozioni che immaginiamo sulla faccia di chi le ha scritte. Vediamo l’azzardo, l’espressione e finanche il respiro di Giacomo Leopardi quando, seguendo unicamente il suono vivido del dialogo faccia-a-faccia, scrive “il zappatore” nel suo “Il sabato del villaggio”.
Cos’è la licenza poetica se non il tentativo, spesso vincente, di portare il lettore allo stesso tavolo dello scrittore?
Certo, il genio gioca un ruolo importante, ma non va persa di vista la trasduzione del pensiero che si nutre di semplificazione, di essenzialità, di purificazione. Purtroppo, nel tentativo di dire tutto e di più finiamo per seppellire l’idea chiave sotto una valanga di parole superflue.
I giri vorticosi alla “veniamo noi con questa mia a dirvi…” disallineano gli occhi di chi legge da quelli di chi scrive.
Scrittura di stile
Sul piano della tecnica, i paragrafi forti sono quelli con un solo argomento (subito il pensiero centrale, poi i dettagli), con chiari collegamenti fra le frasi (così, alla stesso modo, per contro, etc.), con i nomi trasformati in verbi (ad esempio, “avviare” in luogo di “dare avvio”).
Far “risonare” le parole sulla stessa lunghezza d’onda dello scrittore e del lettore significa collegare in parallelo i pensieri di entrambi. In frasi come “verba volant, scripta manent” emerge una simmetria (quasi un equilibrio zen) che omologa il significato alla sua funzione. Il flusso pensiero-scrittura-lettura-pensiero diventa così valore condiviso.
Quando lo scrittore infrange le regole, il lettore vede la sua faccia, percepisce i suoi sguardi, tocca il suo stesso foglio. Senza volare troppo in alto, tutte le volte che con una lettera (o una mail) vogliamo esprimere il nostro disappunto, trasformiamo il convenevole “Pregiatissimo dottore” nel più rigido “Egregio signore” e, alla fine, i “Cordiali saluti” diventano un più secco e risoluto “Saluti”. Tutti cambi di registro che ci fanno immaginare, ancora prima di spedire la missiva, la faccia di chi leggerà.
Da ultimo, lo stile rifugge da qualsiasi conformismo della “moda lessicale” del suo tempo. Il riflusso de “nella misura in cui”, l’odioso “il problema è un altro”, il misterioso “non ho parole”, per finire con l’acrobatico “prendere la palla al balzo” (manco fossimo dei castratori di canguri) sono tutti intercalari che dopo le prime volte non funzionano più. Anzi, hanno lo sgradevole effetto visivo del pezzettino di verdura sugli incisivi.