La scrittura, professionale o amatoriale, è uno dei pochi mezzi a buon mercato per dialogare con l’anima. Molto spesso con la propria, talvolta con quella degli altri.
Anche nella sua forma più elementare e pratica, come ad esempio il bigliettino che ci facciamo prima di andare a fare la spesa, rivela un discorso interiore molto più profondo del semplice elenco di ciò che manca nel frigo. È un susseguirsi di “assenze” che fanno prefigurare dei riempimenti fatti di scenari futuri, inviti a cena, piaceri sotto forma di prelibatezze.
Mettere nero su bianco la miriade di pensieri tumultuosi che affollano in ogni istante la nostra mente, si traduce giocoforza nella loro necessaria semplificazione, ma non per questo perdono quell’essenzialità che li contraddistingue.
La scrittura dei necrologi, oltre a essere un’esperienza che richiede una buona dose di conoscenza degli esseri umani, mette la morte davanti ai nostri occhi di “sopravvissuti” e ci costringe a riflettere sul fatto che la vita non è mai scontata.
Con le parole riusciamo a esplorare mondi fantastici, a ricostruire ciò che è stato e a dare contorni a ciò che non sarà mai, ma di fronte al mistero della morte tutto il nostro vocabolario entra in modalità “era una brava persona” come a suggellare, alla fine di tutto, una specie di pietà onnicomprensiva.
Tre tipi di necrologi in cerca di memoria eterna
Mi piace pensare ai necrologi come a una sorta di genere letterario assai articolato. Il registro comunicativo, se così lo si può definire, si espande su territori diversissimi in relazione all’estensore di quest’ultimo ed estremo messaggio.
C’è chi se lo scrive da solo quando è ancora in vita, immaginando (divertito) le reazioni degli eventuali lettori quando arriverà il momento. Sovente, in questa scrittura del saluto d’addio pianificato non manca mai una buona dose di ironia. Quella buonanima di mio nonno, già da molti anni prima della sua dipartita, aveva preteso che sul suo annuncio mortuario comparisse l’avviso: “Vi saluta e vi aspetta”.
Ci sono poi quelli scritti dai famigliari. Si riconoscono subito dallo sforzo, in molte occasioni malcelato, di tenere insieme i “contributi poetici” di tutto il parentado. Vengono fuori delle narrazioni che, al netto dei sentimenti di compassione, letti con rispettoso distacco finiscono per apparire più che altro come delle stucchevoli caricature del defunto.
Infine, se il personaggio trapassato ha avuto in vita momenti di notorietà, ecco arrivare il risalto pubblico sui giornali o, come succede di questi tempi, sui social. In entrambi i casi, la scrittura si ammanta di un fascino morboso che per certi versi la rende più vicina al romanzo che al commiato.
C’è vita dentro i necrologi
Contrariamente a ciò che siamo portati a pensare, il necrologio non è la storia della morte. È, all’opposto, il racconto di una vita. Il picco lo si raggiunge nei cosiddetti coccodrilli, una modalità giornalistica con la quale ci si prepara per tempo all’evenienza. Così si raccolgono aneddoti, appunti biografici e interviste per documentare in bella copia la vita ben vissuta di chi non potrà mai leggerla. Per fortuna, verrebbe da dire. Perché questa frenetica ricerca dell’essenza autentica del dipartito ha più a che fare con il verosimile che con il vero.
Tutto un lavoro di filantropia, che non mi trattengo dal definire artistica, per lasciare sullo sfondo, o in maniera il più possibile marginale oppure addirittura omessa, la causa della morte.
Infatti, le parole vengono in soccorso di quel sottile pudore che ancora oggi ci fa vergognare delle malattie, dei comportamenti dissoluti, delle colpe anche laddove non rappresentano la causa.
Non è un caso che le affissioni mortuarie raccolgano quotidianamente capannelli di affezionati commentatori dell’aldilà dall’aldiquà. Dibattimenti che, gira e rigira, inevitabilmente fissano il loro punto di caduta su “come è morto?”.
È proprio in questi improvvisati consessi di strada che si comprendono i fondamentali del necrologio. A metà strada fra l’elogio a prescindere (riservato anche a chi in vita non era stato esattamente uno stinco di santo) e il biasimo per ciò che avrebbe potuto fare (il defunto), ma che non ha fatto (su tutti vince il tema “a chi avrà lasciato tutti i suoi capitali?”), la discussione verte sugli elementi cardine della commemorazione scritta:
- lo sfondo del defunto (voleva davvero essere ricordato così?)
- il giudizio sulla famiglia (adesso che è andato tutti a piangerlo, ma prima?)
- gli stereotipi dell’opinione pubblica (il tempo che intercorre fra la pubblicazione del necrologio e le esequie è sempre foriero di una bulimia di chiacchiere spesso sconfinante nel fantascientifico)
Così, in questo ricorrente “dibattito” senza il protagonista, tutti continuiamo a chiederci “dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley”, anche se in definitiva ci interessa poco o niente il fatto che dormano tutti sulla collina.
Mettetela come volete (non è necessario confessarlo), ma è innegabile che un gran numero di persone inizi la giornata con l’oroscopo e “vediamo un po’ chi è morto oggi”. Non necessariamente in quest’ordine.
Già, oroscopi e necrologi. Una casualità? Non credo, si intravvede un filo comune che tiene insieme “cosa potrà capitarmi” e “cosa è già capitato (agli altri)”. Due narrazioni che nonostante sappiamo benissimo essere quantomeno sospette, ci piace dar loro credito nell’eterna lotta fra il piacere effimero della prevedibilità e il desiderio memorabile dell’immortalità.