“Tutto ciò che ci irrita negli altri, può portarci a capire noi stessi”, diceva Jung. Uno dei padri del pensiero psicologico e psicoanalitico nutriva ben pochi dubbi circa la “proiezione” del nostro cono d’ombra nelle articolazioni verbali e fattuali dei nostri interlocutori.
Lo so, le antipatie “a pelle” sottendono a meccanismi molto complessi che tirano in ballo l’atemporalità della memoria implicita, gli indizi o le tracce di pericolo rilevate dall’amigdala, la difesa dell’io e lo spostamento sugli altri delle nostre mancate gratificazioni.
Rimanendo molto più in superficie, mi sono reso conto come la “repulsione” nei confronti di certe persone derivasse anche dal loro modo di esprimersi. L’ho notato soprattutto in questi ultimi tempi, quando le contingenze delle relazioni mediate hanno liberato il campo da gran parte delle “distrazioni” – peraltro essenziali – tipiche della comunicazione in contesti spazialmente analogici.
Si sa, nelle relazioni da remoto, vengono a mancare quasi completamente gli aspetti non-verbali dell’atto comunicativo, e questo induce l’emettitore e il ricevente a concentrarsi maggiormente sul senso e sugli scopi delle diverse espressioni verbali.
La conclusione a cui sono giunto mi ha fatto capire quanto anch’io potessi risultare urticante nell’adoperare quegli stessi approcci dialettici. In sostanza, il “non piacermi una persona” era di fatto il riverbero sull’altro delle violazioni che io stesso commettevo.
Ne è scaturito un campionario di situazioni, del tutto parziale e personale, in cui ho avvertito una forte dissonanza cognitiva con le mie convinzioni più intime e con quegli stessi atteggiamenti cui mi ero lasciato andare.
Parlano sempre male di tutti
Il pettegolezzo no-limits, fino al suo ultimo stadio del giudizio senza appello, è solo un vano tentativo per mettere in evidenza le loro qualità a scapito dei difetti degli altri.
Il fatto che la denigrazione avvenga “alle spalle” della o delle persone oggetto di scherno, nella nostra mente innesca almeno tre effetti:
- evitiamo di fare confidenze a queste persone perché immaginiamo che, prima o poi, le diffonderanno sotto una luce del tutto negativa
- quando qualcuno parla sistematicamente male degli altri, finisce per apparire lui stesso altrettanto negativo
- siamo certi che in nostra assenza useranno lo stesso registro denigratorio per descriverci agli altri
Si lamentano sempre
Hanno sempre un motivo per lagnarsi, indipendentemente dall’oggetto della discussione.
Ora, è del tutto naturale cercare un po’ di commiserazione, ma quando quest’ultima diventa l’unica modalità di dialogo, il disagio dell’interlocutore di turno si fa palpabile e, alla lunga, non più sostenibile.
Tutti attraversiamo delle difficoltà, tanto che alle lamentale degli altri spesso rispondiamo riversando addosso a loro le nostre. Creando così una specie di gara virale delle miserie umane.
E cosa succede in questi casi? Il professionista del lamento verrà pian piano escluso, evitato, ignorato. Il suo destino non potrà che essere un cortocircuito di solitudine.
Hanno una giustificazione per tutto
“Non è colpa mia” è il loro marchio di fabbrica. Sono tutti gli appartenenti alla categoria “Il cane mi ha mangiato la relazione”. Ovviamente, la povera bestiola è innocente, magari ammettere che lasciare i fogli sul divano non è stata una grande idea fa fare al padrone una figura migliore.
Questo leitmotiv della discolpa perenne, di fatto ci fa pensare proprio a un’esplicita ammissione di errore. Cioè, il risultato che si ottiene è esattamente opposto a quello dichiarato.
Già lo sappiamo, il cervello umano non riconosce l’avverbio di negazione “non” e quindi “registra ed elabora” solo il resto della frase (per non pensare a una cosa, dobbiamo pensarla al fine di non pensarla), ma soprattutto denuncia una totale mancanza di assunzione di responsabilità.
“Scusa per il ritardo, ma c’era un gran traffico” equivale a dire “Sono una persona superficiale e non ho saputo organizzarmi per questo appuntamento, giocandomi in un certo senso anche la mia credibilità”.
Sei hai fatto una cosa, loro l’hanno fatta cento volte meglio
Anche in questo caso esiste una sorta di modalità predefinita. La sopravvalutazione dei loro successi personali (quelli collettivi gli sembrano troppo sminuenti) finisce per farli passare per bugiardi cronici.
Attenzione, perché all’altro capo della faccenda c’è anche la falsa modestia. Ovvero, il dire non dicendo (“Non per vantarmi, ma…”).
Vogliono sempre avere ragione
Quante volte, dopo aver argomentato, ci siamo sentiti rispondere “Ok, ma il problema è un altro”? Come ci siamo rimasti? Male, ci scommetto. Ma al tempo stesso ci siamo fatti anche l’idea di un interlocutore che non accetta di ritornare sui suoi passi, anche quando ha torto marcio.
Capita anche a noi? Certo, tutte le volte che difendiamo le nostre posizioni in barba a qualsiasi evidenza contraria e, di fatto, corretta.
Ammettere di aver sbagliato e di riconsiderare un nostro punto di vista è segno di onestà intellettuale. Vorrà dire che quando sosterremo con forza un’idea di cui abbiamo davvero cognizione, la stessa acquisirà più valore.
Lo sappiamo fin dai tempi di Esopo, quando a furia di gridare invano “Al lupo! Al lupo!”, a un certo punto il lupo arriva davvero, ma ormai è tardi e nessuno ci crede più.