Non è un segreto, molti dei post che pubblichiamo hanno un tasso di coinvolgimento prossimo allo zero. Eppure, ce la mettiamo tutta per confezionare un pugno di righe sensate, utili, attraenti (di solito, lo pensiamo solo noi). Tuttavia, alla fine manca sempre (o nella maggior parte dei casi) l’ingrediente più importante: l’emozione.
Per meglio dire, siamo così presi “dal comunicare”, che una volta soddisfatte le nostre emozioni (eccitazione e soddisfazione) non ci preoccupiamo di quelle dei lettori. E dire che secondo Alan S. Cowen e Dacher Keltner, PhD dell’Università di Berkeley, il nostro cervello ha una reazione diversa per ciascuna delle 27 emozioni che i due ricercatori hanno classificato. Insomma, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
L’aspetto più problematico è senz’altro comprenderle e tradurle in parole (per l’appunto, emozionanti) nel momento giusto. Per esempio, se il nostro post parla di addobbi natalizi lo stato d’animo di chi si sofferma a leggere sarà improntato alla gioia, mentre se descrive un weekend sulla neve la lunghezza d’onda sarà quella del divertimento.
Identificare il tipo di emozione che i lettori hanno al momento della loro ricerca si traduce in soddisfazione da parte loro (hanno trovato esattamente quello che cercavano) e, allo stesso tempo, in maggiore engagement del post.
Non sono tutti emoji quelli che luccicano
Descrivere le emozioni attraverso un medium testuale non è una cosa facile. Per questo, già da diverso tempo si è cercato di ovviare con simboli che riproducono le espressioni facciali. Dalle emoticon agli emoji il passo è stato breve.
Tuttavia, da un lato è vero che i simboli pittografici sono in grado di connettersi con la mente umana in pochissime frazioni di secondo, ma dall’altro l’equivoco è sempre in agguato. La deduzione è perfino banale, se un’immagine vale più di mille parole sarà anche vero che ognuno vedrà in quella visualizzazione uno (o più) di quel migliaio di lemmi, con tutte le interpretazioni individuali del caso.
Si possono scrivere le emozioni?
Ovviamente, come ci ricorda Platone, anche la scrittura non è esente dalla decodificazione personale, ma ha il grande vantaggio di determinare stati emotivi prossimi all’universalità. Se descrivo l’azione di strisciare un coltello sulla superficie di un piatto, molti avranno avvertito una sensazione di fastidio.
Nella stessa direzione si collocano le reazioni riconducibili alla paura. È impossibile ignorare il rischio di perdere la salute a seguito di condotte sbagliate (fumo, alcol, guida spericolata), di conseguenza la loro traduzione in messaggi (“Bere tè verde può prevenire l’insorgenza dell’Alzheimer”) diventa potentissima perché si coniuga con una reazione emotiva presente in tutte le persone.
Non è un caso che la paura sia una delle emozioni più sfruttate dal marketing. Il meccanismo è semplice: si individua una paura che molti individui hanno (il problema) e a ruota si fa seguire la narrazione di come il prodotto o il servizio siano in grado di combatterla (la soluzione).
La prima riga è quella che fa la differenza
Quello che in un articolo è il titolo, in un post è semplicemente il suo attacco, ovvero la prima riga. Basta osservare come vengono rapidamente fatte scorrere le timeline per comprendere l’importanza di catturare fin da subito il cosiddetto colpo d’occhio del lettore.
Non c’è una regola, per questo occorre procedere per tentativi. Il metodo più empirico (ed efficace) è quello di rileggere il proprio post con gli occhi della casalinga, dell’ingegnere, del disoccupato. Se l’impersonificazione dei vari soggetti ci porta a provare sempre la stessa emozione, allora siamo sulla strada giusta.
La dissonanza cognitiva
Tutti gli esseri umani, in misure diverse, provano delle emozioni. Su questo piano un post le può attrarre o, all’opposto, sfidarle.
Quante volte crediamo in una cosa, ma siamo costretti ad agire in maniera opposta? Oppure, ci è mai capitato di far convivere nella nostra mente due contraddizioni, lasciandoci andare a un’incoerenza irrisolvibile?
Dov’è l’emozione in tutto questo? È nel desiderio di miglioramento quando leggiamo (quasi lo scrittore ci conoscesse) dell’incongruenza fra la nostra vita idealizzata e quella reale. A questo punto non abbiamo scampo, o modifichiamo il nostro sistema di credenze (non sogniamo più) o risolviamo la dissonanza cognitiva accettando la nuova emozione (il desiderio ci spinge ad agire).
Tutte le volte che diamo un nome alle nostre emozioni, anche come conseguenza del fatto che qualcuno le ha descritte, i conflitti interiori diventano meno significativi e le sensazioni più maneggevoli. E di colpo ci sentiamo meglio.