“Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato…”. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è racchiuso in un frammento di versi del “paesologo” Franco Arminio, tratto dalla raccolta Cedi la strada agli alberi.
Senza aloni, in maniera semplice e diretta, parte da qui la (ri)scoperta del senso autentico delle (piccole e banali?) cose che non vediamo più.
Abbiamo costruito le piramidi, siamo andati sulla Luna, arriveremo su Marte, stiamo sconfiggendo una pandemia senza precedenti, ma nonostante ciò oggi facciamo una gran fatica a rimanere concentrati su qualsiasi occupazione. O, meglio, la nostra attenzione è continuamente messa sotto assedio dalla noia e, a quanto pare, l’antidoto che più ci piace è quello di consultare le timeline dei social.
Assistiamo a una sorta di evaporazione progressiva dell’attenzione. Nel 2000 la soglia di attenzione media era di 12 secondi, ma oggi è scesa a soli 8 secondi. Per dire, il pesce rosso ha un’attenzione di 9 secondi (Ricerca Microsoft Canada, 2015).
Tutta colpa nostra, lo smartphone non c’entra (quasi) per niente
Di certo, la tecnologia ha contribuito a complicare le cose, ma la questione riguarda principalmente il nostro cervello.
Siamo costantemente alla ricerca di nuove informazioni e oggi gli strumenti digitali ce le servono – senza soluzione di continuità – sopra un piatto d’argento. Resta invariato, invece, il meccanismo della ricompensa (il piacere della scoperta), il quale non è molto diverso da quello che veniva regolato dai neuroni dei nostri antenati primitivi.
Allora, il problema dov’è? Semplificando, ci dà più piacere cercare sempre nuove informazioni (che spaziano dalle news ai pettegolezzi) rispetto al loro necessario controllo cognitivo. In sostanza, c’è un disallineamento fra la bulimia informativa e il raggiungimento dei traguardi prefissati.
Tutto ciò si traduce in una grande difficoltà a resistere alle distrazioni. Del resto, Facebook & Co. vincono a mani basse quando gli “avversari” sono i compiti ripetitivi e noiosi, come quelli tipici di molti uffici.
I vari device, sempre a portata di mano, ci danno l’illusione di poter addomesticare l’attenzione con il multitasking, ovvero la possibilità di svolgere più operazioni nello stesso momento.
In questo caso, paghiamo uno scotto cognitivo che si traduce in un ritardo nell’esecuzione e in una minore precisione del risultato. Una scarsa performance la cui causa è da individuare nel processo di commutazione che mette a dura prova le risorse della nostra corteccia cerebrale.
Stiamo scrivendo un articolo mentre arriva la notifica di un post o di una mail. Ecco un classico esempio di “scambio di concentrazione” che riporta le nostre convinzioni alla realtà: ci sentiamo forti (“guarda quante cose riesco a fare contemporaneamente”) al prezzo di non essere efficienti. A conti fatti – provare per credere – fare una cosa per volta ci riesce meglio e con risultati di gran lunga più apprezzabili.
Alla ricerca della concentrazione perduta
Non so a quanti succeda, ma io quando guardo gli alberi (anche una bella immagine funziona) avverto come una specie di ricarica dell’elettricità neuronale. Sento che all’improvviso spariscono le interferenze e questo “non fare nulla” dà un altro significato a quella noia dalla quale tutti non vediamo l’ora di rifuggire.
Più che un vedere è per l’appunto un sentire che nutre l’attenzione con la riflessione. Poi, da quando ho imparato ad allungare le pause fra un compito e l’altro, sento aumentare anche la capacità ricettiva dei miei sensori biologici: faccio caso al vento che scuote una tenda abbassata, a un cane che abbaia, al cigolio di una bicicletta. Momenti tutto sommato trascurabili, ma che aggiungono tempo al tempo.
Come Franco Arminio ho capito, probabilmente con colpevole ritardo, che occorre “togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare…” e che possiamo ritrovare l’attenzione iniziando a “dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza”.