E se il digitale fosse solo una sfida culturale?

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Tubetti di colori a olio e un computer

Mentre tiene banco il dibattito sulla “spinosa” questione se siamo usciti migliori o peggiori dal lockdown (l’esito è alquanto incerto), sull’accelerazione digitale c’è sicuramente molta più convergenza.

Se solo qualche mese fa c’erano ancora diversi “capitani d’azienda” di antica memoria (riconoscibili da una notevole abilità nell’uso del fax) che ritenevano l’internet un fenomeno passeggero, oggi nomi come “Zoom”, “Google Meet”, “smart working” sono entrati nel lessico quotidiano anche di molti uffici direzionali di stampo novecentesco.

Come sempre avviene quando le trasformazioni avanzano a strattoni, anche il rapido sdoganamento delle nuove pratiche digitali – alcune vecchie di almeno dieci anni – ha fatto intendere come la “leggerezza” delle nuove tecnologie abbia incontrato, ancora una volta, il muro organizzativo del “Abbiamo sempre fatto così”. Cioè, è stato semplice (e naturale), anche se forzatamente, aderire ai nuovi paradigmi del lavoro agile, ma molto meno automatico è apparso l’adattamento dei preesistenti presupposti organizzativi.

Qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere?

Prima di adottare l’home working come una delle modalità possibili di erogazione di una prestazione o di un servizio, è necessario “dimenticarsi” di ciò che la tecnologia cambia nel rapporto di lavoro subordinato.

Se il problema principale è “Come faccio a controllare se i miei dipendenti lavorano?” di certo si sta andando nella direzione sbagliata.

Le domande fondamentali sono altre:

  • Quali vantaggi potranno ricavare i nostri utenti/clienti da un’organizzazione più veloce e più snella?
  • Quali processi andranno ripensati in ottica smart?
  • Come potremmo ridefinire gli spazi fisici dei nostri uffici?

Macchine vs persone?

Quando le persone eseguono compiti ripetitivi si stancano e si alienano, invece le macchine sono nate proprio per fare quelli.

Nel XXI secolo ha ancora senso impegnare gli esseri umani in mansioni “meccaniche” come, ad esempio, fornire delle risposte lette su un terminale?

Tuttavia, anche nel tentativo di superare questa aberrazione, si nasconde un errore elementare che commettono molto aziende, ovvero quello di utilizzare le tecnologie per sostituire le persone, con l’illusione di risparmiare sui costi, È vero, le macchine non si ammalano, non chiedono aumenti di stipendio, non vanno in ferie, ma hanno il difetto di non essere per nulla creative e, in senso positivo, imprevedibili.

Allora, posto che le attività noiose e di basso livello si devono affidare alle macchine, perché non mettere le persone nella condizione di fare quello che amano di più, cioè risolvere problemi? E ancora, quanto sarebbe più vantaggioso un ibrido che unisse l’inventiva delle strutture biologiche con la potenza dei circuiti computerizzati?

Qualcuno dirà che si fa già. D’accordo, ma non è di certo uno standard universale. Quando vedo che si usa ancora la barra spaziatrice per allineare a destra, mi rendo conto di quanta strada debba ancora fare la formazione aziendale. Per non parlare della meraviglia con cui viene accolto il risultato di una somma fra due celle.

Non si tratta di “dettagli” marginali, rappresentano la cartina al tornasole di un’alfabetizzazione digitale mancata e, di conseguenza, l’evidenza di un rapporto “poco amichevole” con i propri strumenti operativi.

Le sfide del lavoro , in particolare le implicazioni derivanti dall’introduzione dei modelli di intelligenza artificiale, richiederanno sempre più dei team uomo-macchina in cui i punti di forza di uno andranno a compensare le debolezze dell’altra e viceversa.

Tutti ricordano la sfida del 1997 fra il campione del mondo di scacchi Garri Kasparov e il supercomputer IBM Deep Blue, ma forse pochi sanno che in riferimento alle sue sconfitte (l’ultima in sole 19 mosse!), il giocatore russo polemizzò con IBM e arrivò a sospettare di aver giocato sì contro un computer, ma “assistito” da un essere umano. Per la cronaca, IBM si rifiutò di rendere pubblici i tabulati dell’elaboratore.

In uno studio del 2016, commissionato dall’amministrazione Obama, Preparing for the future of artificial intelligence, l’interazione è ancora più evidente. Nella valutazione delle immagini radiologiche, un computer presenta un margine di errore del 7,5%, a fronte del 3,5% di un professionista medico. Tuttavia, l’approccio combinato (macchina più uomo) fa scendere il tasso di errore allo 0,5%.

Il digitale è una sfida culturale

Quindi, possiamo solo aspettarci che queste tendenze si rafforzino. Alla spinta “agile”, impressa dalle misure di contenimento della pandemia, non si può rispondere sbrigativamente con un “Basta smart working, torniamo al lavoro”. A parte che lo smart working è lavoro, se questo è quello che abbiamo imparato, non ci siamo accorti che è cambiata gran parte della natura delle nostre occupazioni.

In un certo senso, il lavoro si è letteralmente svincolato dallo spazio fisico predefinito. Tutte le volte che ci spostiamo da casa nostra per accendere un computer posizionato sulla scrivania di un ufficio, per poi passare tutto il tempo a interagire esclusivamente con esso, dovremmo interrogarci se tutto ciò ha ancora ragione di esistere.

Ecco perché il digitale va oltre alla sua stessa cifra tecnologica. Negli ultimi decenni, le parole si sono staccate dai libri di carta, la musica si è staccata dai dischi in vinile prima e dai CD dopo, le immagini si sono staccate dagli alogenuri d’argento. In sintesi, con i bit possiamo fare a meno dei supporti atomici, senza peraltro pregiudicare il contenuto informativo. Cambiano così modalità, stili, tempi.

Allargando il discorso, il valore del lavoro non dipende dal luogo fisico dove questo viene elaborato, ma va fatto risalire esclusivamente alle capacità delle persone. È sempre il sapere a fare la differenza, tutto il resto sono solo anticaglie post-industriali.

In tale scenario si gioca la partita di un progresso tecnologico al vero servizio degli esseri umani. Tutto questo ha un nome. Si chiama cultura.

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E se il digitale fosse solo una sfida culturale?
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E se il digitale fosse solo una sfida culturale?
Descrizione
Il lavoro agile ha fatto comprendere che "si può fare!", ma ha anche svelato le contraddizioni del sistema. La sfida è essenzialmente culturale.
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Sergio Gridelli Blog
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Di Sergio Gridelli

Sono nato e vivo a Savignano sul Rubicone (FC), una piccola città della Romagna attraversata dal fiume che segnò i destini di Roma. PERCHÉ LO FACCIO Ho sempre pensato che l’impronta di ciascuno di noi dipenda da un miscuglio di personalità e di tecnica. Se questi due ingredienti sono in equilibrio nasce uno stile di comunicazione unico, subito riconoscibile fra tutti gli altri. Perché in un mondo tutto marrone, una Mucca Viola si vede eccome! COME LO FACCIO Aiuto le persone a trovare le motivazioni che le rendono uniche. Non vendo il pane, vendo il lievito. COSA FACCIO Mi occupo di comunicazione aziendale e della elaborazione di contenuti per il web. Curo i profili social di aziende e professionisti. Tengo corsi sulla comunicazione interpersonale, il public speaking, il marketing digitale e su come realizzare presentazioni multimediali efficaci.

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